La Via – 13 maggio 2013
Oggi Parliamo di:
IL NUOVO PAPA SOMMERSO DALLA MELASSA DEI MEDIA
Caro Francesco, il “buon pranzo” non basterà
Gentili lettori, mi sono detto: chiunque può scrivere del Papa e della nazionale di calcio.
Io non faccio eccezione a questa concessione universale, che vale alla stregua di una indulgenza plenaria: come ogni pulce ha la sua tosse, ciascuno di noi ha la facoltà di affacciarsi su Piazza San Pietro (o fare osservazioni su chi lo fa abitualmente, diciamo per professione antica di 2mila anni) o di mettere a soqquadro e a proprio piacimento capriccioso formazione, schemi e moduli di Prandelli.
Perciò, quando qualche collega mi ha chiesto: “E se stavolta scrivesse di Francesco?”, io (irresponsabile) di getto ho risposto: “perché no?”.
Mi disse una volta un mio caro (e saggio) amico scrittore: “Vedi Gianluca, solo i superficiali non si fidano della prima impressione”. E’ un aforisma che, come ogni aforisma paradossale che si rispetti, ribalta i canoni e rovescia il senso comune. Ci ho ripensato, quando è accaduto: era la sera di mercoledì 13 marzo 2013. Mi trovavo in redazione a Canale Italia: su un grande schermo tv appeso alla parete, la diretta di una delle tante emittenti sull’”evento” della proclamazione. La fumata bianca si era levata dal comignolo più famoso del mondo alle 19.06, poco più di un’ora prima, dopo la quinta votazione alla Sistina, e un gabbiano appollaiato sul camino ne era stato l’incontrastata star mediatica.
La Piazza all’annuncio era rimasta curiosamente interdetta, come in stato di sospensione attonita: epperò mi spiega Luciano Lincetto, il noto giornalista cattolico spesso mio ospite nel talk che conduco in televisione, e che si trovava in mezzo alla enorme, oceanica folla di fedeli, che quella reazione popolare non era tanto delusione o rincrescimento, quanto incomprensione dettata unicamente dalla non conoscenza del nuovo eletto al sacro Soglio pontificio.
Com’è inevitabile, infatti, i media avevano creato una spasmodica, febbricitante attesa su alcuni nomi “forti” di candidati papabili. E quindi, l’annuncio di un outsider (che veramente tale non era, visto e considerato che nel conclave precedente era arrivato…secondo dietro Ratzinger) aveva spiazzato e confuso la gente. Come se il conclave fosse una sorta di “talent” alla X Factor…
E sia. Io stesso ci sono cascato in pieno: aspettavo un altro nome. Allora lo faccio. Ho conosciuto e intervistato il cardinale Angelo Scola, quand’era Patriarca di Venezia (l’ho anche intervistato al premio Hemingway a Lignano Sabbiadoro) e confesso che facevo il tifo per lui. La mia, però, credo, non era tanto o solo una posizione sciovinista italiota, oppure di favore o preferenza per la conoscenza diretta e la grande stima che nutro per il teologo e filosofo Scola. E’ che mi pareva ci fosse bisogno di un uomo così., adesso. E mi sembrava che perfino Ratzinger, un grande Pontefice teologo e filosofo e l’autore di un passo indietro senza precedenti da molti secoli per la Chiesa, l’avesse indicato come suo “delfino”, scegliendolo come arcivescovo di una realtà diocesana complessa e impegnativa come Milano.
“Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo…ma siamo qui”: sono state le prime parole del primo Papa Francesco della storia della Chiesa cattolica.
Eccolo lì, affacciato dalla loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro, Jorge Mario Bergoglio, argentino (e primo Pontefice sudamericano), 76 anni, gesuita e 266 esimo Pontefice.
Poi si inchina: “Beneditemi”. Lui lo chiede a noi.
Confesso il mio stupore. E anche di aver provato una intuizione immediata e fastidiosa, come lo sgambetto dell’inatteso disagio, che è simile alla perdita di equilibrio che segue una delusione inappropriata e fuori luogo. Ma era – lo ripeto ancora a scanso di equivoci – una intuizione naturalmente e profondamente superficiale, questa: lui purtroppo non è la scelta giusta.
Che, mi rendo conto, detto così suona blasfemo la sua parte: com’è universalmente noto, è il soffio dello Spirito Santo che muove le mani dei 115 cardinali elettori; è la Provvidenza che scende a illuminarne i passi e le azioni, sotto la volta del Giudizio Universale di Michelangelo.
E in quell’istante sconcertante, non avevo minimamente riflettuto – come ho fatto “dopo” – sull’appartenenza di Bergoglio all’ordine dei Gesuiti, da secoli avvolto dalle coltri caliginose e sulfuree del pregiudizio (…”Oh Versace! Tu predichi bene e razzoli male…proprio come un gesuita!”… mi apostrofava, al culmine dell’esasperazione simulata, il mio finto-burbero professore di lettere allo scientifico “M.Buonarroti” di Monfalcone). Né potevo disporre delle ambigue, varie e discordanti versioni sui presunti rapporti di Bergoglio con il famigerato generale dittatore Videla all’epoca della feroce, sanguinosa giunta militare che resse l’Argentina, fra il 1976 e il 1983.
No, la mia era semplicemente una reazione “a pelle”. Da prendere come tale e per quel che vale: meno che zero.
Ma tutto quello che è successo “dopo”, appunto, ovviamente è qualcosa di più ponderato, meditato e riflessivo.
Ne ho, ne abbiamo, parlato molto (troppo?) dai microfoni nazionali di Canale Italia, nei giorni appresso.
E molti hanno rimarcato con convinzione e passione civile dati di fatti incontrovertibili: uno, Francesco è il primo Pontefice non europeo e non eurocentrico: un cambiamento epocale; due, Bergoglio conosce la vera povertà, non quella nostra, finta, enfatizzata e retorica.
Il mio amico don Carlo Marcello, parroco di Villadose in Polesine, è venuto in trasmissione – apprezzatissimo – per farci capire alcune cose, con la lucidità, la tenacia e il coraggio spietato dell’esorcista che c’è in lui.
Allora.
Tutti dobbiamo cambiare. Sennò andremo sempre incontro a delusioni cocenti.
Il potere ci sta portando alla rovina. Va fatto – subito! – un passo indietro: a tutti i livelli.
Gesù disse fondamentalmente tre cose: la prima, annunciate il Vangelo (ed è la radice della predica); la seconda, imponete le mani ai malati: e questi guariranno, si fa o non si fa nelle nostre chiese e nella Chiesa?!?; la terza, cacciate il demonio: e certamente questa cosa non si fa! Colpevolmente non si fa! A tal segno che anche la Chiesa è “al servizio di Satana, il Principe di Questo Mondo”.
Confessa don Carlo: “Parlo del diavolo ai bambini e la mamme vengono in canonica e si lamentano vibratamente: don Carlo, eh no! Così ci spaventa i figli! Per favore la finisca! Gli parli piuttosto di cose belle e piacevoli! E io: ma signora, mi ascolti: lei non dice a suo figlio “stai attento alla stufa, perché se non lo fai ti brucia?”.
Ha ragione, don Carlo. E ricordo per assonanza quanto mi disse in Friuli padre Turoldo: “Lo sa che la più riuscita astuzia del diavolo è quella di farci credere che…non esiste?”.
Cosa intendono, Carlo e Davide Maria? Che la nostra epoca ha pensato di risolvere il problema del male, che è insito ed intrinseco al genere umano, che è ineludibile parte integrante della inusitata realtà chiamata libero arbitrio, che è stato concesso all’uomo, semplicemente cancellandolo, espungendolo, obnubilandolo dal nostro orizzonte quotidiano. Il male, infatti, non è produttivo, non serve ai nostri start up, al nostro efficientismo meccanico e protesico, alle speculazioni in borsa. Il male, al contrario, è una zavorra al piede delle magnifiche sorti e progressive della modernità, la macchina invincibile e senza incertezze proiettata verso il Sole dell’avvenire.
Perché il male e chi lo rappresenta e lo incarna ci induce, ci spinge e costringe a riflettere. A fermarci e fermare le macchine e i programmatori. A scendere dalla giostra impazzita e chiederci chi siamo diventati noi.
Balliamo sull’orlo di un precipizio.
Siamo disorientatissimi. Smarritissimi. Arrabbiatissimi. E potrei continuare di superlativo in superlativo. Ma non servirebbe.
Allora, in questa situazione, è evidente che l’importanza di una forte e salda guida religiosa, spirituale e morale come il Papa acquisisce un ruolo determinante.
Mi sono domandato: un Papa deve essere “simpatico”? Deve saper abbattere le distanze con il popolo di Dio? Deve sapere dire “buon giorno e buona sera” piuttosto che “buon pranzo e buona cena”? Perché no. E Perché sì.
Al Regina Coeli in Piazza San Pietro, Francesco apre le braccia e dice proprio questo mai sentito “Auguri e buon pranzo!”. Lo fa con piglio simpatico, irresistibile per i media e la mentalità mediatica che ci guida e permea. Lo fa con bonario afflato “materialista”, forse consapevole che tra provedelcuoco e master chef il nostro destino pare si giochi col mestolo e la forchetta in mano.
Non lo so, rifletto: forse a me non serve tanto che il Papa si sieda al mio tavolo, che cucini come pure sa fare (spiega sua sorella), che mi dia una pacca sulle spalle: tutti atteggiamenti che pure me lo rendono “uguale a me” (come sento dire dai pellegrini accorsi a vederlo). A me sembra di avere bisogno di qualcuno che mi faccia capire piuttosto il senso del cibarmi, materialmente il corpo e spiritualmente l’anima.
Certo. La Chiesa è “Pietro, non pietre”: è bacio, carezza, sollievo, preghiera, speranza, è tutto quello che ci manca nel momento esatto in cui ci manca.
Ma è anche direzione di rotta, quando la navigazione ci sta portando al naufragio. E’ anche un “no” che risuona stonato con i troppi “sì” del tempi, quando il tempio è invaso di farisei e sepolcri imbiancati, e che ci blocca sulla soglia della falsità, della recita e dell’ipocrisia.
Nei giorni della Pasqua, Francesco è andato a pregare sulla tomba di Pietro, nelle catacombe sotto la Basilica. Tutti ricordiamo “Io sono Pietro e su questa pietra edificherete…”. Evidente il significato del suo gesto: lì sta il fondamento di …una ditta che da 2mila anni riscuote un discreto successo.
Ma saprà Francesco davvero recuperare la spinta che riposa là sotto, custodita nelle viscere misteriose di San Pietro all’interno di quella incontaminata origine prima?
Suo malgrado, temo, gli ormai proverbiali “gesti francescani”, una volta prodotti sono assorbiti famelicamente, avidamente, dalla mediaticità e dalla volgarità obbligatoria del nostro tempo disgraziato: allora, non rimarranno solo e miseramente dei gesti spettacolari all’insegna di un pauperismo populista macinato dai reality show del rutilante mondo dei mass media?
Lo ascolto: lui dice cose che molti scrittori hanno già pensato e detto, prima e meglio di lui, ma lui le dice con una presa sulle masse che qualsiasi scrittore umano si sogna.
Lo osservo: lui saprà affrontare il toro per le corna? Questo toro: c’è un gravissimi problema-deficit di fede che tocca anche il clero. Lui saprà far capire “ai suoi”, che bisogna finirla con delle prediche che hanno il minimo sindacale di fede? Lui saprà far accettare “ai suoi” che dire messa non è timbrare il cartellino all’ingresso della chiesa?
Lui saprà far capire a tutti che se non amiamo noi stessi, non possiamo né potremo amare il prossimo: e noi non ci amiamo più, noi ci odiamo, noi ci vorremmo distruggere, e l’egoismo, l’individualismo e il narcisismo solo solo una maschera che nasconde malamente la diffusissima voglia di scomparire portandoci dietro tutto il nostro vuoto desolante.
Siamo persi, avviliti, ci diciamo che siamo venuti a fare su questa terra e abbiamo bisogno di una guida. Per cominciare, dobbiamo credere in Dio.
Amare i nostri nemici, fare del bene a quelli che ci odiano, perché il Cristianesimo non è solo una religione, ma è una civiltà dell’amore (e per esempio, nell’Islam il concetto del perdono non c’è). Una civiltà che si basa sul riconoscimento della verità, che è il fondamento di una rigenerazione e una società nuova.
Se Francesco ci riuscirà, anche “noi altri” lo seguiremo. Eccome se lo seguiremo, festanti e convinti.
Ma non sarà facile. Mi scuso della durezza: non basteranno bimbi e disabili presi teneramente tra le braccia, né rinunce agli alloggi riservati dentro le Mura Leonine, né papamobili più austere, né rinunce di croci d’oro, né pagamenti personali del conto dell’albergo, né auguri e né simpatici e semplici motti dell’uomo della strada. Ci vorrà ben altro. E lui lo sa.
Giorni fa ho avuto ospite in tv don Floriano Abrahamovicz, il sacerdote lefebvriano, già della Fraternità sacerdotale San Pio X. E don Floriano ha fatto accapponare la pelle ai telespettatori di Canale Italia, ricordando una profezia.
Quella della Beata Katharina (Caterina) Emmerick, suora agostiniana (1774-1824), elevata alla gloria degli altari all’inizio del nuovo millennio: “Vidi la chiesa…vidi anche il rapporto tra i due Papi…vidi quanto sarebbero state nefaste le conseguenze di questa falsa chiesa. L’ho veduta aumentare di dimensioni, eretici di ogni tipo venivano a Roma. Il clero locale diventava tiepido, e vidi una grande oscurità…Vivi molte chiese che venivano chiuse…dappertutto grandi sofferenze, guerre e spargimento di sangue…Una plebaglia selvaggia e ignorante si dava ad azioni violente. Ma tutto ciò non durò a lungo…La Chiesa di Pietro era minata da un piano elaborato dalla setta segreta…ma vidi un Papa che era mite e al tempo stesso molto fermo…”.
…Mite e molto fermo…
Tempo fa un sacerdote mi ha insegnato un termine molto bello, che non conoscevo: “parresia”. Significa, letteralmente “libertà di dire tutto”. Nel testo greco del Nuovo Testamento indica il “coraggio e la sincerità della testimonianza”. Nella tradizione cristiana parresia è il contrario dell’ipocrisia. Ed è parresia la predicazione di Gesù.
“Chiedete e vi sarà dato: lo facciamo più, noi?” mi domanda don Carlo Marcello. Lo guardo stralunato, ma ha ragione. Non chiediamo più perché siamo rassegnati e spenti. Ecco: chiediamo, reclamiamo, pretendiamo la parresia da Papa Francesco. E pretendiamo, reclamiamo, chiediamo la parresia a noi stessi. Solo così volteremo la pagina nera che stiamo scrivendo: una storia che è il contrario della salvezza.
Quand’ero ragazzo, ed ero colmo di passioni e desideri e sogni, andavo tutte le domeniche in Chiesa, a messa, per capire il mistero della vita.
Allora lo chiedo io a Francesco: mi aiuta a riavere indietro quel desiderio di capire?
Gianluca Versace
Giornalista e scrittore